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“Il mondo è ingiusto” di Oscar Niemeyer

Creato il 31 gennaio 2013 da Sulromanzo

Il mondo è ingiustoIl 5 dicembre scorso è morto l’architetto brasiliano Oscar Niemeyer. Era nato nell’anno in cui Picasso dipinse Les demoiselles d’Avignon e il Nobel per la letteratura andava a Rudyard Kipling, il mondo aveva appena iniziato a esplorare le risorse della radiofonia e, per venire all’edilizia, solo da qualche decennio, in Europa, era stato inventato il cemento armato, inizialmente usato (narrano le cronache) per fabbricare vasi da fiori, finché gente come Le Corbusier non ne intuì altre modalità d’uso. E proprio mentre Le Corbusier realizzava i suoi primissimi progetti, Niemeyer alzava in aria una mano senza matita per fissare su un foglio immaginario il paesaggio di Rio de Janeiro. «Mia madre mi chiedeva: “Cosa stai facendo, ragazzino?” E io rispondevo: “Sto disegnando”». Comincia e finisce così, con questa immagine di un disegno (im)possibile, Il mondo è ingiusto. L’ultima lezione di un grande del nostro tempo (Mondadori 2012), un libro sulla necessità dell’utopia, in architettura come nella vita, perché «la fantasia è la ricerca di un mondo migliore».

Il volumetto raccoglie una serie di interviste che, tra gennaio e febbraio del 2012, Niemeyer ha rilasciato al giornalista e scrittore italiano Alberto Riva. In poche pagine vi troviamo il rovello dell’architetto comunista che preferisce Gramsci e Camus ai manuali di architettura, ma lavora soprattutto per i ricchi. E poi l’uomo – l’uomo del tropico – che sa di avere un debito di bellezza nei confronti della natura, di un pianeta ferito e della gente, non meno malconcia, che lo abita. Dunque militanza nell’architettura modernista, sì, ma vissuta anch’essa da dissidente rispetto al funzionalismo più estremo; con un occhio al bello in sé, alla curva, al gesto “inutile”, alla calibratissima follia ingegneristica che caratterizzano tutta la sua opera: dalla chiesa di san Francesco d’Assisi, a Belo Horizonte, all’invenzione di una capitale come Brasília, fondata nel 1960, passando naturalmente per il palazzo Mondadori di Segrate. Un’opera che negli anni ’50 faceva ancora discutere il gotha dell’architettura europea, dove Niemeyer e i suoi “inganni” (parola di Walter Gropius) erano guardati con il sospetto con cui un dodecafonista ortodosso ascolterebbe, senza abbandono, il sensuale impressionismo melodico di un Heitor Villa-Lobos.

Nella seconda parte del libro, Riva racconta appunto la storia di questa lenta apertura della via brasiliana al modernismo architettonico; un modernismo lirico, o barocco. Lirico e barocco come la Casa das Canoas, secondo la definizione di Paulo Mendes da Rocha, premio Pritzker nel 2006. A Riva, fra l’altro, preme narrare, attraverso la voce di Niemeyer, un Brasile diverso da ogni luogo comune, anche da quello più insidioso che da un po’ di tempo appiccica al Paese latinoamericano l’etichetta di “emergente” e forse di “emerso”, sebbene il solco fra participio presente e passato resti una mobilissima linea d’ombra. Consiglio di leggere questo libriccino come stralcio al precedente libro di Riva, Seguire i papagalli fino alla fine (Il Saggiatore, 2008), dedicato alle voci, ai suoni e alla gente di Rio de Janeiro; sorta di romanzo non narrativo, polifonico e anche abbastanza radiofonico (da leggere con lo stereo acceso o il computer “sintonizzato” su YouTube), dotato di una struttura spiraliforme in cui una palla lanciata dalla mitica ala destra Garrincha finisce sui piedi di un sambista d’altri tempi (quando il Carnevale era una festa di poveri scalzi) o passa fra le mani di un giovane veterinario impegnato a salvare la vita alle scimmiette che, dalla foresta tropicale a ridosso della megalopoli, cadono nel traffico di una città che sembra aver frullato inferno e paradiso in una personale visione di purgatorio tropicale.

 


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